“Si Cucine cumme vogl’i’”, la cucina povera di Eduardo
14 maggio 2014
Napoli
“ …quando sono in palcoscenico a provare, quando ero in palcoscenico a recitare… è stata tutta una vita
di sacrifici. E di gelo. Così si fa il teatro. Così ho fatto!”
Con questa affermazione il grande Eduardo chiudeva il suo intervento, pochi mesi prima della morte,
avvenuta nel 1984, al Teatro di Taormina.
Nel trentennale della sua morte, SevenSalerno, nella pagina Gusto, suggerisce la lettura di un capolavoro
dell’arte gastronomica partenopea.
“Si Cucine cumme vogl’i’- La cucina povera di Eduardo”– questo il titolo—si può considerare un poemetto in
cui la moglie di Eduardo , Isabella Quarantotti, mescola sapientemente stralci di commedie del Maestro a
ricordi di vita coniugale e a ricette preparate con impegno e dedizione dal marito. Momenti magici, per lei,
brillante e perspicace donna, scrittrice, attrice, sceneggiatrice, durante i quali osserva il marito alle prese
con i fornelli, con la saggezza e la lentezza del rito quotidiano più vero ed importante per i napoletani, nel
quale riversano il loro amore per la vita e per la famiglia. Nato povero, fiero di esserlo stato, Eduardo de
Filippo ha sempre optato per un cucinare popolare sobrio, schietto, veloce, ma intenso, pregno di tutti i
colori e i sapori della sua terra.
Con l’eleganza che lo ha sempre contraddistinto, completava i suoi piatti con fantasia e pazienza, quella
pazienza acquisita grazie alle lunghe giornate passate a recitare un copione, per il suo pubblico, per se
stesso…
La moglie, Isabella Quarantotti, guida il lettore in questo percorso del Gusto, lo fa avvicinare alla cucina
povera, quella che Eduardo ha appreso dalla nonna Concetta Termini, quando da bambino soleva restare
per lunghi periodi da lei, mentre la madre Luisa De Filippo seguiva la Compagnia Scarpetta, di cui era la
sarta, in tournèe.
Le ricette di Eduardo e di Nonna Concetta vanno in scena, come quando il Maestro fece dirigere i profumi
del ragù verso il pubblico.
“Eduardo in cucina – racconta Isabella – non buttava nulla, poiché conosceva a fondo tutte le potenzialità
dei prodotti di Napoli e della Campania e, soprattutto, ci metteva l’anima, dialogava con il cibo con calma e
pazienza, cercando di comprenderne l’essenza e il modo con cui trattare ogni alimento. Abbiamo perciò
davanti non un ricettario di cucina napoletana, ma uno scritto filosofico in versi su come affrontare la vita, o
meglio, sull’essenza della vita stessa”.
Il primo capitolo del libro è incentrato sul ragù napoletano, “‘O Rraù”, con la famosa conversazione tra
Donna Rosa e la domestica Virginia e i commensali. Mentre Donna Rosa riempie i piatti di maccheroni
fumanti la tavola imbandita è allietata da un piacevole chiacchiericcio, interrotto poi dal “sacro silenzio del
ragù”.
Le ricette proposte si susseguono golose per arrivare, a fine pranzo, al Caffè.
Il caffè, altro pilastro della Napoletanità, va preparato da mani esperte, non può essere una delusione…
Eduardo descrive come si abbrustoliva, o tostava, il caffè a Napoli nei primi anni del Novecento. “ Ogni
giorno c’erano qualche donna o qualche nonno appollaiati sui terrazzi o seduti in balcone a girare la
manovella dell’abbrustulaturo”.
L’ “abbrustulaturo” era un cilindro da 30 a 60 cm, per circa 15 cm di diametro, da un lato aveva un lungo
perno, dall’altro una manovella. I chicchi crudi si infilavano nel cilindro da uno sportellino centrale chiuso da
un gancetto. Il fornello era una scatola di metallo rettangolare su piedini, sulla griglia del fondo si
accendeva la carbonella, al centro di una parete laterale c’era un buco per alloggiare il perno, di fronte si
trovava un vuoto in cui inserire la manovella. Fatto ciò, si dava inizio alla tostatura del caffè.
Un libro, questo, da leggere, da custodire, da tramandare…
Maria Rosaria Voccia