Il marmoraro Gaetano Sacco durante il Barocco e il Rococò a Napoli
Tesi di Laurea di Maria Rosaria Voccia, A.A. 1998-1999, UNISA, pubblicata su “Rassegna Storica Salernitana” a settembre 2000
IL MARMORARO GAETANO SACCO DURANTE IL BAROCCO E IL ROCOCÒ A NAPOLI
1 – Il quadro di riferimento
Le ricerche relative all’attività di Gaetano Sacco durante il corso
del barocchetto e del rococò napoletano hanno indotto a seguire e
ad evidenziare l’avvicendarsi di più artisti e maestranze in opere
legate al suo nome, oltre ai modi ed alle tecniche che Sacco, scultore
realizzatore, ha adoperato per la produzione di singolari ed
eccellenti opere. Al fine di potere afferrare la reale portata
dell’ interdipendenza tra processo personale di formazione e processo
storico dello sviluppo artistico napoletano, la ricerca ha comparato
le informazioni documentarie relative al “nostro” marmoraro
con quelle sulla committenza (essenziali per comprendere l’indirizzo
delle scelte tematiche e la provenienza dei modelli di riferimento),
ordinando i documenti reperiti in modo da mettere in luce le analogie
formali in opere di periodi diversi. Le indagini hanno consentito,
ad esempio, un’ analisi filologica per ricostruire la politica degli
ordini religiosi nei confronti del contesto urbano di pertinenza delle
loro sedi; senza questa base, unita alla ricerca nelle biblioteche e
negli archivi, lo studio delle convenzioni e delle note dei pagamenti
non sarebbe stato sufficiente a ripercorrere le modalità di progettazione,
realizzazione e collocazione delle suddette opere.
Probabilmente nel secolo XV era già costituita a Napoli la corporazione
dei fabbricatori, marmorari e tagliamonti. Il più antico
documento finora noto è uno statuto del 1508. Non sono le regole
di fondazione, ma fanno conoscere le prime tradizioni della corporazione.
Gli uomini delle tre arti si riunivano in una cappella dedicata
a San Tommaso, in onore del quale, ogni anno, facevano una luminaria
ed una processione, devolvendo a beneficio della cappella ed
in aiuto dei soci poveri il ricavato delle elemosine. Alla corporazione
erano iscritti anche ingegneri ed architetti, indicati col, generico titolo
di magistero Circa l’importanza delle suddette manifatture, è certamente
giovevole – anche per fare un riferimento di alto livello –
ricordare che il Borromini, per alcuni anni della sua giovinezza, non
fu che un umile intagliatore di marmi. Ciò che bisogna rilevare è la
continuità di magistero familiare che si riscontra nell’ esercizio delle
diverse discipline presso molti artefici (i D’Adamo, i Marasi, ecc.).
Si vuole dire, insomma, che intanto i figli acquisivano un “mestiere”
finissimo, in quanto erano andati da sempre “a bottega” dai loro
padri. Infatti, solo così era ottenibile l’appropriazione della capacità
di realizzazione, al miglior grado di perfezione, di un certo manufatto.
Ecco perché, ancora oggi, possiamo godere di queste opere,
che né il tempo, né il vandalismo, né i terremoti hanno ancora
intaccato, proprio grazie alla sapiente elaborazione delle tecniche,
escogitate per la più lunga durata. Circa un secolo dopo, nel 1618,
scultori, marmorari, scalpellini e semplici operai si riuniscono, a Napoli,
in una corporazione, per controllare il mercato sempre più
ampio del lavoro e per limitare la concorrenza. Nelle botteghe gli
scultori erano anche veri e propri “capomastri” responsabili di tutti
i problemi tecnici che la messa in opera comportava; ad es., nel
caso di Cosimo Fanzago, è indicativo che nei contratti di lavoro si
trovino riferimenti continui alle modalità esecutive. I documenti, infatti,
riportano le fasi della lavorazione, intagli, segature, lustrature,
rotature; le lamine marmoree dovevano essere tagliate perfettamente,
fissate su un supporto rigido, rendendo invisibili le linee di
connessura, oppure introdotte in uno scavo ricavato da un unico
pezzo di marmo con funzione di fondale. L’efficacia dell’opera dipendeva
dai rapporti d’ombra e di luce dati dai rilievi e da cavità
con cui l’artista foggiava la sua forma. Sui maestrimarmorari emergono,
oltre i Marasi, il Vannelli, il Solare, Matteo Pelliccia, Simone
Tacca, Jacopo Lazzari, Giacomo Colombo e il nostro Gaetano
Sacco.
Dai documenti si ricavavano spesso anche i nomi degli architetti
che incaricavano e dirigevano questi eccezionali maestri del pipemo,
dello stucco e del marmo, tra j più noti Francesco Antonio Picchiatti,
. Dionisio Lazzari, Arcangelo Guglielmelli, e Giandomenico Vinaccia.
Ma, a poco a poco, con il mancare l’uso di lavorare i marmi, si
ridurrà il numero di questi artefici.
A motivo della scarsa considerazione goduta a Napoli dalla
scultura, il De Dominici l pone in evidenza il disinteresse della
committenza per quelle funzioni celebrative della scultura stessa,
che, invece, precedentemente erano state intese quale modo di affermazione
di glorie civiche e dinastiche, in quanto monumenta nel
senso letterale.
Il motivo evocato dal De Dominici non era, in effetti, che uno
dei vari luoghi comuni con cui, già da oltre un secolo, la tradizione
storiografica di orientamento classicistico aveva condotto la sua polemica
segnatamente contro la scultura barocca, giungendo col Bellori
ad omettere dalla storia artistica del Seicento il Bernini; altro più
ricorrente luogo comune è stato quello della “meccanicità” della
scultura rispetto alla “intellettualità” della pittura e del disegno, perché
ritenuta inadatta ad esprimere concetti storici.
Dopo la fondazione della “Società Storica Napoletana” nel 1876
e di “Napoli Nobilissima” nel 1889 da parte di Benedetto Croce,
le indagini di studiosi quali Gaetano Filangieri di Satriano, Gian
Battista D’Addosio, Giuseppe Ceci, Nicola Faraglia, si sono
concretate in folti sillogi documentarie, con nomi di lapicidi, marmorari,
scultori, pittori, architetti e vari altri artefici; sono lavori in prevalenza
monografici, nei quali si fondono insieme storia artistica e storia
delle istituzioni civili e religiose. Tra l’Ottocento ed il Novecento la
ricerca è continuata grazie all’impegno dei Prota Giudeo, Strazzullo,
Mormone, Ruotolo, Rizzo, Nappi, di matrice prevalentemente filologica.
Comunque, manca, finora, una storia della scultura, analoga alla
Geschichte der Malerei Neapels di W. Rolfs, del 1910.
Bisogna dire che si sa ancora poco, malgrado tutti questi studi,
sulla organizzazione delle botteghe degli scultori del Seicento a
Napoli, specialmente sui tanti bozzetti “senza nome”, che sovente
ricompaiono in raccolte pubbliche e private. È pensabile che a
Napoli la pratica del modello, o bozzetto, sia stata sporadicamente
frequentata, e che gli scultori abbiano scolpito “alla prima”.
Laddove il bozzetto, però, c’è stato, il pittore, lo scultore, l’architetto
seguiva personalmente le varie fasi di lavorazione oppure
dispensava consigli e suggerimenti, ed era, inoltre, un punto di
riferimento ‘sostanziale per l’argentiere, come si evince dai contratti
per la commessa dei lavori. I lineamenti della scultura napoletana
risultano più precisi grazie al consolidamento degli studi precedenti.
Non pare che le più aggiornate conoscenze modifichino
quei termini problematici che si erano appuntati sulla evoluzione
della cultura manieristica di Pietro Bernini e di Michelangelo
Naccherino prima, e sulla dialettica barocca del binomio alternativo
Fanzago-Finelli Ce le rispettive cerchie), poi. In loro c’è sempre
il riferimento alla cultura manieristica toscana. Fanzago e Finelli
divennero polarità predominanti nella ricerca di linguaggi originali,
se non proprio autonomi, e nella linguistica formale berniniana,
tanto da apportare staticità relativa su istanze originali emergenti.
Dalle premesse fanzaghiane e dai fermenti culturali assai vivi sul
finire del Seicento, andò configurandosi un nuovo orientamento di
gusto che, tuttavia, si svilupperà con assoluta autonomia espressiva,
in quanto scaturito, come ha osservato F. Bologna, «dal
ceppo di qualcosa che non lo comportava». Nella pittura sono gli
esiti delle sottili invenzioni di Giacomo del Po e di F. Solimena
della Sacrestia di San Paolo Maggiore (1689-90); in scultura le
idee di Lorenzo Vaccaro per gli stucchi della cupola di
Sant’ Agostino degli Scalzi (1698) o di Giandomenico Vinaccia
per il paliotto di San Gennaro (1692-95), lavorato a sbalzo su
disegno di Dionisio Lazzari, cariche di innovazioni che annunciano
il secolo che nasce. Artisti protesi verso la maturazione del Rococò,
che avrà il determinante apporto delle arti decorative, nelle quali
abilissimi artigiani opereranno sotto la guida delle capricciose invenzioni
di artisti come Lorenzo e Domenico Antonio Vaccaro,
Sanfelice, Tagliacozzi Canale, complesse personalità artistiche, tra
cui alcune di primissimo piano come Bartolomeo Granucci, ed
altri, di cui la critica va oggi scoprendo il ruolo fondamentale che
ebbero per lo sviluppo della decorazione plastica del primo Settecento.
Questi artisti interverranno in tutti gli aspetti della
omamentazione, dal progetto grafico alle realizzazioni in marmo,
pietre dure, legno, stucco, ricamo, metallo. Per il primo trentennio
del Settecento la statuaria d’argento è ben documentata sia dalle
opere superstiti, sia da quelle note attraverso i ritrovamenti di
archivio. In assoluto risaltano Lorenzo e Domenico Antonio Vaccaro
e Gian Domenico Vinaccia. Nel trapasso Lorenzo – Domenico
Antonio Vaccaro e nel Vinaccia è il vero fondamento delle attitudini,
delle capacità inventive, della poetica del Rococò napoletano.
A Napoli Domenico Antonio Vaccaro, estroso e sensibile,
raccoglieva la eredità patema perseguendo quel nuovo corso delle
arti plastiche indicatogli, appunto, dal padre. Stimolato dall’ opera
dell’ultimo Giordano, insieme a G. Domenico Vinaccia, particolarmente
attento alle inquietudini culturali del suo tempo, Lorenzo
Vaccaro, con la statua argentea di San Michele che trafigge il
drago per il tesoro di San Gennaro, aveva già espresso, nel 1691,
il compendio degli intenti innovatori del nuovo secolo. Per quanto
concerne il Vinaccia, il De Dominici narra che ebbe per maestro
Dionisio Lazzari, uno dei più versatili architetti napoletani, ammettendo
però di non sapere da chi avesse appreso l’arte dell’ orafo,
che pure costituì la sua attività principale. Egli però ignorava che
il Vinaccia, come ci informa Catello, fosse figlio d’arte ed appartenesse
ad una famiglia di orefici originari di Massa Lubrense.
Realizzando le sue opere prevalentemente di getto, Vinaccia si
mostra uomo di rare capacità. La raffinata esecuzione e la splendida
cesellatura del paliotto dell’altare maggiore della Cappella
del Tesoro ne è un alto esempio. Un altro allievo di Lorenzo
Vaccaro, Matteo Bottigliero, mostra di percorrere vie diverse,
ancora legate alla realtà barocca.
Monumento alla Principessa e al Principino di Piombino (S. Diego all’Ospedaletto, Napoli)
A dominare la scena del primo Settecento anche Giacomo Colombo, scultore in legno attivo all’ombra
di Solimena, ed artefice di alcune opere in marmo, come l’elegante monumento della principessa e del principino Piombino nella Chiesa di S. Diego all’Ospedaletto a Napoli, eseguito su disegno del suo maestro, alla cui realizzazione ha contribuito il maestro marmoraro Gaetano Sacco, ed il vigoroso ritratto di Carlo VI in Santa Teresa agli Studi, scolpito sotto la direzione di Giacomo Del Po.
In ogni settore del sapere, il carattere specifico del Rococò
si rivela nella predilezione per forme più rimpicciolite ed aggraziate,
per movimenti più spezzettati ed antitetici, per un’interpretazione
più libera e soggettiva dei tradizionali elementi formali ereditati
dal Rinascimento e dal Barocco. Anzitutto, nella transizione dalla
magniloquenza barocca alla fase rococò, verificatosi nell’ arte e
nella letteratura contemporaneamente all’affermarsi del nuovo clima
mentale dell’llluminismo, si rispecchiano i mutamenti essenziali,
tipici di questo contrasto. Il Rococò non ha maturato un repertorio
formale tutto suo, basato su premesse indipendenti dalla produzione
precedente, ma si è sviluppato come modificazione ed
evoluzione degli elementi stilistici e di stampo rinascimentale
costitutivi del Barocco, presentandosi soltanto quale corrente più
limitata del linguaggio formale e dell’ orientamento ideologico, che
lungo tutto il percorso del ‘700 va accompagnato dal continuato
influsso della tradizione barocca di grandiosità anticheggiante. Non
sulla creazione di un originale repertorio di basilari elementi formali,
ma solo sul diffondersi di un nuovo atteggiamento mentale –
dello spirito del grazioso, del gusto delle forme spezzettate e
rimpicciolite, della ispirazione galante – è opportuno definire il
Rococò. Mentre il culto della maestà e della grandiosità
anticheggiante, affermatosi nel Rinascimento sotto l’influsso del
mondo classico, giunge all’apogeo nel tardo ‘600 e perde terreno
con il passaggio al ‘700, la tendenza al movimento autonomo ed
alle forme curvilinee ed interpretate soggettivisticamente, quale
l’altra componente essenziale del Barocco, si va rafforzando nella
fase del Rococò, la cui aspirazione ad una resa più fantasiosa e
movimentata ha le sue premesse nel diffondersi di un carattere
meno voluminoso, più leggero, spezzettato e movibile del Iinguaggio
artistico e della dizione. Un altro elemento tipico del Rococò,
spesso mescolato ed assimilato alle fantasticherie della Rocaille
francese, sono quelle curve antitetiche che presentano, a Napoli,
una stilistica costante dai primi decenni del secolo XVII fino all’apogeo
del Rococò e sono soppiantate solo dopo la metà del
‘700 da un orientamento più sobrio, più regolare, meno esuberante,
nonché dai primi impulsi preannuncianti il trionfo della fase
neoclassica. Invece della tesi dell’unità stilistica e dell’origine esclusivamente
francese del Rococò, forse è opportuno accettare il
combinarsi di almeno due correnti formali, tra cui una di provenienza
italiana e riallacciabile alla evoluzione ornamentale che si è
verificata nella città partenopea. Infatti, per quanto concerne rapporto
napoletano iniziato dal Fanzago, relativo alla componente
delle curve antitetiche per la genesi del Rococò, sono due i problemi
che meritano un cenno: la persistenza nell’arte napoletana
della tradizione stilistica creata dal Fanzago, rilevabile dai primi del
‘600 alla metà del ‘700, e il manifestarsi di tendenze formali
preannuncianti le curve astratte, antinaturalistiche ed antitetiche.
Per il primo problema possiamo riferirei agli studi recenti su
Fanzago e la sua scuola (Lazzari, Vinaccia, Ghetti, Bastelli, ecc.).
L’innovazione dei motivi di carattere vegetale e la loro combinazione
con le forme anorganiche delle curve, tipica della decorazione
del cosiddetto Barocchetto (precedente l’apogeo del Rococò), non
ha interrotto il continuato influsso della tradizione fanzaghesca. Come
esempio, abbiamo l’acquasantiera conservata ad Aversa nella chiesa
della SS. Annunziata o quella molto ricca della Nunziatella di
Napoli.
Nei paliotti degli altari principali e laterali (SS. Apostoli,
Monteoliveto, S. M. di Costantinopoli) incontriamo vari esempi di
questa decorazione, con l’inserimento di drappeggi e nastri nell’insieme
dei paliotti, così come l’impiego di medaglioni e corone con
rappresentazioni dipinte, oppure bassorilievi quali centro dell’ insieme
ornamentale, sono tipici della evoluzione progressiva della tradizione
fanzagesca verso le manifestazioni qualificabili di Rococò,
imbevute di maggiore gracilità degli elementi formali, sempre, però,
conservanti, come base del loro stile, il motivo secentesco delle
curve astratte, simmetriche e dei loro arricchimenti. Bisogna osservare
che nei decenni della transizione al Rococò solo l’Italia, ed in particolare Napoli, presenta una ricchezza così varia e fantasiosa
delle forme ornamentali con una coerenza dello stile. In Francia
manca tale continuità evolutiva: la genesi della Rocaille è dell’ultima
fase del ‘600 ed è preceduta da una fase classica che trova la sua
espressione, nel campo ornamentale, in forme regolari ed esattamente
incorniciate. Unicamente in Italia mancano, nell’ architettura e
nell’ ornamentazione precedenti al Rococò, questi intermezzi di stile
dominati dalla rivincita del classico, e si è verificata, senza incoerenze
ed interruzioni, l’evoluzione artistica scaturita nell’apogeo del
Rococò. Non esiste soluzione di continuità nell’evoluzione stilistica
conducente al Rococò, a Napoli. Già nel corso del ‘600, la predilezione
per l’inserimento di puttini, sia per devozione che per rappresentate
il motivo mondano della gioiosità infantile, nella decorazione
degli altari, viene sostituita da bimbi ignudi a figura intera,
quasi sempre seduti oppure pendenti alle estremità laterali degli
scalini. Anche attorno al tabernacolo o quali sostenitori del medaglione
dei paliotti ed in combinazione con le curve e volute tradizionali
si rispecchia la loro grazia ed il loro gioco. Con più chiarezza
e conseguenzialità che in altre parti d’Europa, si rispecchia, nella
zona napoletana, l’unità fondamentale del periodo stilistico iniziatosi
intorno alla metà del Quattrocento con l’introduzione dei nuovi motivi
di provenienza classica, costituenti la base dell’unità evolutiva attraverso
le modificazioni sopravvenute.
Per una piena ed obiettiva valutazione del contributo di Napoli,
capitale del Regno Borbonico delle Due Sicilie, dato alla vita artistica
del primo Settecento, giova ricordare la produzione nel campo
della musica CA. e D. Scarlatti, Pergolesi, Leo, Porpora, Durante),
l’influsso del soggiorno di Handel ed Hasse, il diffondersi della tragedia
lirica, delle cantate religiose e mondane, dell’ opera buffa di
stampo napoletano in tutti i paesi occidentali. Il lasso di tempo
caratterizzato dalla dominazione austriaca C 1707- 34) è stato, quindi,
fecondo di contatti artistici. È in questo momento storico che cade
l’attività filosofica di G. B. Vico, che soppianta con la sua “Scienza Nuova” la predominante filosofia di Descartes.
2 – I lavori di Gaetano Sacco
Nel Meridione, e nella città di Napoli in particolare, si è avuto un
abbondante e pregevole repertorio di opere e manufatti artistici nel
periodo qui preso in esame.
Scrive il Filangieri il 28 Febbraio 1891:
“ Da questo 5° volume ha inizio una nuova serie, non meno importante
della precedente, anzi per alcuni aspetti di maggiore utilità agli
studiosi, perché raccogliendo essa sotto forma alfabetica i nomi degli
artisti ed industriali che nello spazio di sette secoli vissero ed operarono
nelle province meridionali d’Italia, ci fa ampiamente fede che le
arti in quella regione ebbero grande coltura ed operosità. Ed io non
temo di affermare che nessun’ altra parte di Italia possegga ora, come
Napoli, un repertorio così copioso e diligente di simil genere …
Nel Seicento fra gli Ordini religiosi nacque una vera gara, intesa
ad arricchire le loro chiese di altari, argenterie e preziosi.
Secondo un calcolo approssimativo, verso la metà del secolo, si
disponeva di argento lavorato per non meno di otto milioni di ducati.
In questa gara, ovviamente, il Duomo di Napoli e la Cappella di
San Gennaro – indipendenti dal punto di vista giuridico ed economico
– non potevano certamente essere ultimi. Infatti, qui hanno lavorato
artisti ed artefici sia stranieri che napoletani, questi ultimi riuniti in
corporazione dal 1618. Generazioni di artisti si tramandavano il servizio
da padre in figlio; è il caso di maestri di cappella, organisti,
argentieri come Del Giudice, Treglia, Vinaccia e del marmoraro
Gaetano Sacco.
Questo attivissimo marmoraro napoletano, di cui è ancora ignota
la data della nascita e l’appartenenza familiare, mostra di possedere
una tecnica precisa, che dà risalto ad ogni qualità di marmo. Non
discende da una famiglia di artigiani, lavora da solo ed accanto ad
artisti quali Giacomo Colombo, Matteo Bottigliero, su progetti di Francesco
Solimena e Giandomenico Vinaccia. Il regesto risultato dalle mie ricerche attesta che nel 1664 Gaetano Sacco esegue i lavori in marmo relativi ai pavimenti per la Sagrestia della Cappella del Tesoro
nella Cattedrale di S. Gennaro, a Napoli, su progetto dell’architetto
Gian Domenico Vinaccia; in seguito, si è occupato solo di restaurare,
tra il 1685 ed il 1687, il lavamani in marmo e ferro battuto, al quale
ha aggiunto un canale d’ottone, sicuramente per permettere il passaggio
dell’acqua; ha eseguito poi le balaustre di marmo per la Cappella
del Conte, nella Cattedrale, ed ha aggiustato i torcieri del Battistero
situato a sinistra ‘di chi entra. Era prerogativa seicentesca erigere il
fonte battesimale all’interno delle Chiese, in contrapposizione al Battistero,
attiguo agli edifici, di epoca paleocristiana. I torcieri (o lampade)
presentano vivide venature colorate di marmo nero e bardiglio.
La Cappella del Conte non risulta nel Duomo, e c’è da dire che il
documento da cui ho appreso la notizia non dà spiegazioni relative al
cognome della famiglia proprietaria della detta cappella. Per quanto
concerne, poi, i sostegni di ferro fatti per il pulpito pericolante, si deve
certamente dedurre che questo pulpito fosse stato di legno, e che
quindi avesse avuto bisogno di essere rinforzato. Come mi è stato
spiegato gentilmente dal parroco, il pulpito ligneo è stato rimosso ai
primi del nostro secolo, ed è stato costruito l’attuale pulpito di marmo.
La decorazione marmorea della Cappella del Tesoro di San
Gennaro ha avuto-inizio nel 1610, secondo i disegni del Grimaldi, e si
è svolta per oltre, un ventennio, sotto la direzione di Cristofaro
Monterosso.
Gaetano Sacco ha lavorato nella Cappella per circa mezzo secolo
come “politore di marmi”, restauratore ed esecutore brillante di progetti.
Alla sua morte gli successe il nipote Gennaro Marra (1730), alla
morte di questi il nipote Michele Salemme (1752), ed alla sua morte
il figlio Agostino (1790). La manutenzione ordinaria affidata al pulitore
di marmi consisteva nel pulire le balaustre in aprile, agosto e dicembre,
il pavimento in aprile ed in agosto, le statue di bronzo ogni mese
ed il piedistallo della guglia in settembre: il tutto per ducati 20 l’anno.
Nel 1664, per la Sagrestia del Tesoro, Dionisio Lazzari ha disegnato
i pavimenti ed i lavori sono ·stati eseguiti dal Sacco, come è
stato affermato sopra, su progetto di Giandomenico Vinaccia.
Nel 1666, poi, Lazzari ha progettato una nuova e più ampia
Sacrestia, rubando spazio all’attiguo cortile della Deputazione.
Nel 1686 il marmoraro Sacco viene incaricato di rimettere in
buono stato l’acquasantiera marmorea della Sagrestia, alla cui sommità
c’è un bel volto di Cristo incoronato di spine.
Dopo la disputa fra Lorenzo Vaccaro ed il Vinaccia, vinta dal
Vinaccia, per l’esecuzione del paliotto d’argento per l’altare maggiore
del Tesoro con raffigurata la “Traslazione del Corpo di San Gennaro
da Benevento a Napoli”, l’ultimo servizio reso dal Vinaccia al Tesoro
è stato il sopralluogo del 13 luglio 1695 (pochi giorni prima di morire),
quando discusse con ingegneri e tavolari sul cerchione di ferro da
apporre alla cupola lesionata in seguito ai terremoti del 1688 e del
- Lesioni che in più parti avevano danneggiato gli affreschi del
Lanfranco, tanto che la Deputazione, il 22 febbraio 1696, pregò il
duca di Flumeri di provvedere al restauro delle pitture. Erano trascorsi
tre anni ed il cerchione di ferro non era stato ancora applicato alla
cupola. Il 7 settembre 1697 la Deputazione aveva incaricato del
castelletto di legno il nostro Gaetano Sacco. Ma in te anni le tavole,
tra sole ed acqua, erano “marcite di forma”, sicché, il 28 maggio
1698, si ricominciò da capo. Ancora un terremoto nel 1706, ed altre
lesioni nella cupola. Il duca di Spezzano, nel’ 1707 come ‘nel 1698,
disse no al cerchione di ferro. E ne capiva, essendo il capo degli
ingegneri della città. Così, i Deputati del Tesoro scrissero a Roma per
conoscere il parere di famosi architetti. Decisamente contrario al
cerchione di ferro si dichiarò anche l’architetto F. Sanfelice che, nel
1708, pubblicò a Napoli il suo “Parere circa il riparo da darsi alla
cupola della Cappella del Tesoro di San Gennaro”. E così, i lavori
vennero definitivamente rimossi.
Per quanto riguarda il nuovo altare maggiore, se ne parlava dal
1702, e nel 1706 venne scelto il disegno del Solimena, ma ne venne
sospesa l’esecuzione per penuria economica. Si sperò, allora, nelle
offerte del popolo, mentre il duca di Spezzano andava raccogliendo
offerte di devoti che desideravano dare un voto d’argento alla Cappella
ed attaccarlo al cancello di ottone. La Deputazione non gradì
questa raccolta arbitraria, e pregò il cardinale Pignatelli di proibirla,
facendo devolvere la somma raccolta alla costruzione dell’ altare
maggiore. Nel 1708 Gaetano Sacco restaura una croce di lapislazzuli
indorata dal Granucci, posta sull’ altare maggiore, donata al Tesoro dal
Banco di Napoli. Il Granucci provvide la croce di un sostegno (detto
pedagna) restaurato anch’ esso, in qualche punto, dal Sacco, sempre
nel 1708 (ved. polizza di pagamento del 16 dicembre 1708). Nel 1709
Gaetano Sacco fa il disegno per situare il quadro di rame del
Domenichino, che era nel Salone dell’Udienza, incastrato nel muro,
davanti alla statua della SS. Concezione, sulle stanze della Deputazione,
adibendolo a porta della nicchia della Vergine (documento del 28
maggio 1709). Probabilmente, il quadro dipinto dal Domenichino (che
muore nel 1641) rappresentava il “Martirio di San Gennaro e dei suoi
compagni Proculo e Sosio”; a causa della morte dell’artista, il quadro
venne allogato allo Spagnoletto che vi figurò “San Gennaro condotto
alle fiamme della fornace”; il dipinto, non terminato dal Domenichino,
venne lasciato per la Sacrestia del Tesoro.
Il discorso venne ripreso nel 1719. Fu chiesto al Solimena se
preferiva fare l’altare maggiore di porfido o di argento. Il 14 agosto
venne ascoltato il Solimena, il quale disse che avrebbe realizzato un
capo altare di porfido, ornato di comici di rame indorata per una
spesa di 15.000 ducati. Per le comici di rame indorata ed altri ornamenti
d’argento si rivolsero a Nicola De Turris, e Gaetano Sacco
lavorò il porfido. L’opera venne ultimata il 30 aprile 1722 e costò
ducati 19.778. L’altare maggiore si scopriva solo nelle grandi solennità.
Nel 1788 ne curavano la manutenzione il marmoraro Michele
Salemme, l’argentiere Giuseppe del Giudice ed il falegname Domenico
Aveta.
La notizia si apprende da un documento relativo al De Turris 3:
7 gennaio 1722. Hanno concluso come dovendosi ponere con
l’aggiunto del Signore e la gloria del nostro glorioso Protettore S.
Gennaro il gradino del Capo Altare della nostra Cappella, per la
festività del maggio prossimo venturo di questo corrente anno 1722,
et acciocché non solamente si vegga il detto Capo Altare, ma tutta
la Cappella posta in buona semetria, si è concluso che le credenzole
seu le tavolette di argento che stanno sopra li putti di argenti si
tolgano et in vece di quelle si faccino le tavole di porfido con cornici
di argento attorno con servirsi, se sarà possibile, delle cornici che
stanno in esse, e che Gaetano Sacco tagli dette tavolette di porfido
e pulischi tutti gli marmi di detta cappella, che si puliscono tutti gli
argenti della medesima, ed il magnifico Nicola e Carlo De Turris se
ne prendono il peso, come se l’hanno preso.
Nel 1706 la Cappella del Tesoro venne ulteriormente ampliata,
per poter conservare le statue dei Patroni. I busti d’argento trovarono
posto in “casine” del presbiterio, sottostanti alle nicchie, dove
alloggiavano, ed alloggiano, le corrispondenti sculture in bronzo.
I sei antichi compatroni di Napoli sono: S. Severo, S. Agrippino,
- Aspreno, S. Agnello, S. Eusebio, S. Attanasio. Alcune statue
sono state rifatte (secondo il Bellucci): S. Domenico (1658), Santa
Teresa (1715), S. Gregorio Armeno (1729), S. Tommaso (1663 e
poi nel 19° secolo).
Sappiamo da Catello che nel 1690 GaetanoSacco aveva eseguito,
su disegno del Vinaccia, le nicchie ai lati dell’ altare della
Vergine per riporvi le statue d’argento di S. Michele e di S. Giuseppe.
Il 31 ottobre 1691, nel chiostro di S. Lorenzo Maggiore, il
Vinaccia consegnò la statua argentea di S. Francesco d’Assisi che
adesso non esiste più: l’attuale risulta lavorata da Crescenzo Murolo
(1839-60). Oggi, si contano 52 Santi Protettori. Per quanto concerne
il modo di realizzazione di queste statue, gli scultori forniscono
i modelli in creta, convertiti in argento con il procedimento della
fusione a cera perduta, a mezzo del quale è possibile ottenere spessori
tanto esigui, da far pensare si tratti di lavori in lamina. li maestro
argentiere esegue il busto con il sistema della lavorazione a sbalzo,
modellando a colpi di mazzuola la “piancia” preventivamente disposta
su un letto di pece.
Questa fase consente all’argentiere una sua partecipazione, per
la libertà con cui viene interpretato il modello scultoreo. Le 6 statue
del ‘500 avevano la testa d’argento su busto di rame. Nel 1663 fu
dato incarico alI’argentiere Aniello Treglia di completarle in lamina
d’argento. I modelli in creta furono eseguiti da Andrea Falcone,
secondo le direttive di Dionisio Lazzari. Le teste furono salvate, ad
eccezione di S. Severo, modellato da Falcone e lavorata dal Treglia
nel 1671, e di S. Attanasio, sostituita in epoca recentissima.
Di queste statue 24 appartengono al secolo 17°. Importante è
il S. Giuseppe, eseguito nel 1692 dal Vinaccia, e dello stesso, il San
Michele col drago che ha l’eleganza del migliore Settecento. Notevoli
le statue di S. Giovanni Battista e di Santa Chiara, attribuite al
Vaccaro. Giuseppe Sanmartino, in continuità con la tradizione
vaccariana, plasma modelli in cera per argentieri.
Riporto qui i documenti relativi alI’argentiere Vinaccia tratti da
- Strazzullo, La Real Cappella del Tesoro di San Gennaro, Napoli
1978:
le statue d’argento dei Santi Patroni (fra parentesi l’anno della
patronanza):
- Giuseppe (1690). Argentiere Gian Domenico Vinaccia, consegnata
alla Cappella del Tesoro il 28 marzo 1692. Dal documento
562 in Strazzullo (1978) qui riportato si rileva che nell’aprile 1690
la statua stava già nella suddetta cappella. Il 1692, forse, sarà la
data della consegna ufficiale della statua da parte dell’ Arciconfraternita
di S. Giuseppe dei Falegnami. S. Michele (1691).
Argentiere Gian Domenico Vinaccia.
Restaurata in più parti nel 1749 a spese della Confraternita di
San Michele dei 72 sacerdoti, eretta nella parrocchia di San Gennaro
all’Olmo.
‘
- 18 Aprile 1690. Han concluso che si faccino due casini
nuovi a latere del casino grande dove sta riposta la statua della
B .ma Vergine della Concettione con levar li due pilastri di marmo
mischio, e la soprintendenza di ciò l’hanno conferita al Sig. D.
Francesco Capece Scondito, che ne dia tutti gli ordini necessari,
servendosi per Incegniero del magnifico Gio. Domenico Vinaccia;
quali casini finiti di tutto punto con le loro portelle e guarnitioni
conforme all’altri dell’ altri Santi Patroni, serviranno per riporvisi le
due statue d’argento, l’una fatta e già venuto del glorioso S. Giuseppe
e l’altra che si ha da fare del glorioso S. Michele Arcangelo.
Passando, adesso, sempre tenendo presente il regesto, alla Chiesa
di S. Maria Donnaregina, il Sacco, dopo il terremoto del 1688,
durante la “ricostruzione” esegue, ancora, nel 1690, le comici ai lati
dell’ altare maggiore, e su progetto del Vinaccia, tra il 1691-93
esegue la decorazione in mischi (intarsio marmoreo di vari colori)
del pavimento del presbiterio e quella della terza cappella a destra
sull’ingresso dedicata a San Francesco.
Sempre da Delfino sappiamo che precedentemente al Sacco,
nel 1684 Tommaso Salzano realizzò lavori in marmo nella cappella
di S. Francesco, molto probabilmente su disegno del Vinaccia.
Nel 1692, nella Cappella della Purità in S. Paolo Maggiore, il
Sacco realizza in marmo dei modelli in stucco non identificati. Molto
probabilmente il cancello della Cappella è stato realizzato dal Vrnaccia,
in ferro battuto e bronzo. Il quadro di fattura settecentesca raffigurante
la “Vocazione di S. Paolo” è stato trafugato circa dieci anni
fa, come mi è stato riferito dal parroco.
Dopo l’altro terribile terremoto del 1694 Gaetano Sacco produce
l’altare maggiore per la Chiesa della SS. Annunziata di Aversa,
su progetto ancora del Vinaccia, in marmi policromi e nel 1710, per
la stessa Chiesa, esegue l’acquasantiera in marmo.
I testi di Franco Strazzullo sulla chiesa dei S.S. Apostoli, degli
anni 1956- 1959, racchiudono tutti i documenti relativi ai lavori di
scultura, intaglio, argento e pietre dure. Dice l’autore : «Non sono
tutte notizie utili per una esatta conoscenza del patrimonio artistico
della chiesa. Tale documentazione gioverà non solo al curatore delle
patrie memorie, ma pure agli economisti, i quali troveranno materiale
prezioso ed una storia di prezzi».
Relativamente, allora, alla visita della Chiesa, osserviamo le
balaustre. Esse chiudono le otto cappelle (laterali), quattro per ogni
lato, e «sono tutte di marmo Vitulano. Ne prese la partita il marmoraro
Gaetano Sacco, nel 1695, e costarono, tutte, ducati 1966.75».
Come esempio fotografico abbiamo riportato la cappella del Beato
Paolo Burali d’Arezzo e di Giovanni Marinoni, che è la prima a
sinistra di chi entra in chiesa. Era precedentemente dedicata a
S.Carlo, di cui si venerava il quadro sull’altare. In seguito, l’ 11
settembre 1796, proclamata ufficialmente la beatificazione del teatino
- Marinoni, i religiosi preferirono esporre il quadro del loro beato
dipinto da Nicola Papillo.
Dai documenti risulta che del Sacco è anche un puttino posto
sulla parete laterale della Cappella del Beato Gaetano, riportata in
fotografia, eseguito, naturalmente, insieme alla balaustra della stessa;
questa cappella è la secondaa sinistra di chi entra in chiesa.
Strazzullo, nel paragrafo dedicato agli intagli del coro, riporta un
documento datato 21 agosto 1695, in cui viene registrata una polizza
di pagamento per il Sacco, stipulata dal notaio Gennaro Falanga,
per “fattura e pietre delle balaustrate della Cappella della Chiesa”.
Questi lavori hanno impegnato il marmoraro Sacco fino all’ ottobre
- Importante è dire che Solimena ha dipinto le quinte di questa
cappella.Come apprendiamo da uno studio del Rizzo del 1993,
l’altare in marmo con puttini, sculture e piedistalli del 1698 della
cappella del SS. Sacramento di Sorrento è purtroppo andato perduto,
come il piedistallo per la statua di Filippo V nel 1702.
Nel 1704, collaborando con Giacomo Colombo, Sacco realizza
i monumenti funebri per la principessa di Piombino Anna Maria
Arduino e del principino suo figlio nella chiesa di S. Diego
dell’ Ospedaletto. Questi splendidi monumenti sono stati disegnati
da Francesco Solimena. In essi si ammira una perfetta impaginazione
architettonica di gusto classico, i busti di una raffinata esecuzione e
di grande afflato poetico. Recentemente solo il sepolcro del principino
è stato ripulito, come si evince dalle fotografie, mentre l’altro
è in attesa di esserlo.
Nel 1710 fornisce il materiale – marmo di Caserta – per il
fregio e le tre tabelle del cornicione del primo ordine di architettura
della chiesa di S. Maria dell’ Ascensione a Chiaia e poi
ne fa la stima (valutazione). La facciata dell’ Ascensione è realizzata
in piperno e marmo; le tre arcate centrali su pilastri
sono tra loro separate da paraste terminanti in comici doriche.
Gli spazi laterali sono divisi in due registri: in basso una finestra
con comici marmoree, in alto una nicchia sovrastata da un
timpano curvilineo. Alle tre arcate corrisponde la suddivisione
dell’ atrio in tre spazi coperti da volte a crociera, agli elementi
conclusivi lo spessore dei cappelloni laterali.
Sempre nel 1710 esegue l’altare maggiore della Chiesa Santa Maria di Loreto ad Ischia, su progetto di Fra Cherubino d’Aversa.
Nel 1712 realizza l’altare maggiore della Chiesa di Santa
Maria Maggiore a Corpo di Cava (trafugato durante i lavori di
restauro successivi al terremoto 1980), gli scalini e le nicchie
in stucco per riporre la statua della Vergine. Le nicchie sono
state chiuse sempre durante il restauro.
Nel 1719 gli viene commissionato il monumento funebre per il
Marchese di Auletta nella chiesa parrocchiale dì Caggiano interamente
in marmo bianco, evidentemente ispirato al monumento funebre
di Anna Maria Arduino e di suo figlio. Nel 1721, in questo
monumento funerario, Matteo Bottigliero esegue il ritratto di Emanuela
Visilio, figlia del marchese di Auletta, anch’ esso in marmo di
Carrara.
APPENDICE
Cronologia dei lavori di Gaetano Sacco tramite documenti
1664 D. Lazzari disegna i pavimenti per Sagrestia del Tesoro e
Sacco esegue i lavori in marmo su progetto del Vinaccia.
12 gennaio 1685 A. Gaetano Sacco per accomodare la fonte
del lavamani, due. 1.4 (Duomo di Napoli).
19 novembre 1686. A mastro Gaetano lo marmoraro per fare
uno canale d’ottone per la fonte di lavar le mani, per colla, pece et
magistero, due. 2.2 (Duomo di Napoli).
20 dicembre 1686. Il medesimo per fare una giornata alla fonte
d’acquasanta dalla parte del Tesoro, e per accomodare li primi del
Battistero, et spese di ferro et altro, due. 5 (Duomo e Cappella
Tesoro).
15 febbraio 1687. A mastro Gaetano Sacco per haver fatto uno
palaustro (balaustrino) di marmo et polizzare tutta la Cappella del
Conte e fatto le graffe di ferro per la gradiata del pulpito che se ne
cadeva e per giornate occorse in polizzare l’ottone della detta Cappella,
due. 8 (Duomo di Napoli).
29 novembre 1687. Pagato a Gaetano Sacco marmoraro per
annettare la Cappella di marmo et ottone del Crocifisso e tutto l’ottone
della Chiesa due. 3 (Duomo di Napoli).
1688: terremoto in Campania.
- Comici ai lati dell’altare maggiore di Donna Regina.
- Sacco esegue, su disegno del Vinaccia, le nicchie ai lati
dell’ altare della Vergine, nella Cappella del Tesoro di Napoli, per
riporvi le due statue d’argento di S. Giuseppe e di S. Francesco.
16 febbraio 1691. Suor Isabella Capece, abbadessa del monastero
di Donna Regina, paga d.ti 36 a m.ro Gaetano Sacco a comp.to
di due. 536 et in conto dell’opera che sta facendo nel pavimento di
marmi et mischi nella cappella maggiore della loro Chiesa, come da
istr.to per n.f. Grimaldi.
12 maggio 1692. L’abbadessa di Donna Regina paga due. 80 a
Gaetano Sacco a comp.to di due, 220 et a conto dell’opera di marmi
fatta nel frontespitio della cappella maggiore della loro Chiesa, oltre
il disegno fatto da G. Vinaccia.
16 novembre 1692 … a Gaetano Sacco in conto dell’opera di
marmo presa a fare nella loro Chiesa di S. Paolo (Cappella della
Purità), conforme i modelli di stucco della medesima quale opera
resta pattuita nel seguente modo, cioè fogliami a carlini, ecc …
… Stame al giud.icio del sig. G. D. Vinaccia, tavolario …
26 novembre 1693. D. Chiara Concublet, abbadessa di Donna
Regina paga due. lO a comp.to di due, 20 a marmoraro Gaetano
Sacco et essi oltre li due, 1200, pagateli in conformità dell’istr.to e
disegno del mag.co G. D. Vinaccia, per l’opera che sta facendo dè
marmi et mischi nella Cappella di S. Francesco, et disse essere a
conto delli due lati a fondo di essi che sta facendo in detta cappella,
che non stavano nel primo disegno fatto dal Vinaccia.
1694: terremoto in Campania
11 dicembre 1694. Ottavio della Porta paga due. 100 a comp.to
di due. 150 a G. D. Vinaccia e due. 150 sono. a comp.to di 1350 a
conto dell’opera di marmo e mischio dell’altare maggiore della Real
Chiesa et ospedale della SS. Annunziata della città di Aversa, e per
esso a Gaetano Sacco marmoraro, a comp.to di due. 1350 et in conto
del detto altare di marmo.
- Nella Sagrestia del Duomo napoletano lavori in marmo non
identificati, su progetto del Vinaccia.
- Nella Chiesa dei SS. Apostoli, otto (8) balaustre di marmo
di vitulano. Costarono, tutte, due. 1966-75.
novembre 1695. A Gaetano Sacco marmoraro duc. 118 per
saldo di tutta la spesa della balaustrata di marmi fatta nella Cappella
del B. Gaetano, restando a suo peso anche di porre sopra la parete
della cappella il PUTTINO che prima stava davanti la ferriata antica
168 Maria Rosaria Voccia
(Chiesa SS. Apostoli). Entrambi i lavori del 1695 furono protratti
fino al 1697.
16 ottobre 1698. Pietro Talamo paga due. 10 a marmoraro
Gaetano Sacco a comp.to di due. 33 et in conto di duc. 515 pel
contenuto prezzo dell’ altare di marmo, custodia, pottini, scultura et
piedestallo per la cappella del SS. Sacramento di Sorrento (distrutti).
10 aprile 1699. D. Agnese Cavaniglia paga-due. 100 a Gaetano
Sacco a comp.to di due, 630 et in cono dell’opera di marmo che d.to
Gaetano deve fare nel monastero di Donnaromita, e propriamente il
frontespitio dell’ altare maggiore di detta Chiesa.
17 novembre 1702. Alli Deputati della Fortificazione Mattonata
et Acqu. di questa città (Napoli) d. 40 e per essi a Gaetano Sacco
marmoraro disse comp.to di 90 atteso l’altri 50 l’ha ricevuti, tanti si
convenne col detto Tribunale doverseli pagare per tutti li marmi lavorati
piani, per l’angoli del piedestallo della statua del Re Nostro Signore
Filippo Quinto attesosi stabilì doverseli fare centinati, secondo il
Modello approvato dal signor mastro di campo D. Domenico Dentice,
et questo anco per l’apporto fattone dal Regio Ing.re Sio Batta Mansi
e per questi marmi resta detto Gaetano Sacco completamente soddisfatto
(perduto).
25 ottobre 1704. A Giacomo Colombo, d. 50 e per esso a
Gaetano Sacco Maestro marmoraro a comp.to di 900, atteso l’altri
850 l’have ricevuti in diverse volte, e sono tutti in conto di due. 1150,
intero prezzo delli due. (2) tumuli di marmo intagliati della quondam
fu Principessa di Piombino e del Principino suo figlio, che in virtù di
pubblico strumento per mano di Notar Tommaso Malatesta in Napoli,
in beneficio di detto Giacomo, in esecuzione del quale s’obbligò fare
quelli e ponerIi in opere della Scultura che ne Ili medesimi si farà a sue
proprie spese, secondo il disegno fattoli e da rispettarsi dal signor
Francesco Solimena, per lo spatio di un anno dalla stipula del detto
istrumento e alle condizioni e patti apposti e convenuti, nel medesimo
istrumento, al quale in omnibus s’habbia relazione, col quale pagamento
resta solo don Gaetano a conseguire altri 250 ducati, come già
elasso il tempo d’un anno convenuto in detto istrumento di completare
detta opera (Chiesa di S. Diego all’Ospedaletto).
21 settembre 1706. Si facci polisa de due. 12 a Gaetano Sacco
a conto dell’opera e fatiche in accomodare l’altare maggiore della
nostra Cappella (Tesoro di Napoli).
16 dicembre 1708. Restaura una croce di lapislazzuli indorata dal
Granucci, donata al Tesoro dal Banco di Napoli. Il G. l’ha provvista
anche di un sostegno (pedagna), restaurata in qualche punto da Sacco,
sempre nel 1808. «A Gaetano Sacco due. 9 pagati per Banco
della Pietà a conto delle spese fatte e sue fatiche e di altri casso in
havere accomodata la croce di lapislazzuli donata al nostro tesoro dal
Banco del Popolo, come per una croce di ferro a sostegno di detta
croce, ed altro» (Cappella del Tesoro).
28 maggio 1709. Hanno concluso che Gaetano Sacco facci il
disegno su modello per potersi situare avanti la statua della SS.
Concezione il quadro di rame (del Domenichino) che sta sopra le
stanze della nostra Deputazione, adibendolo a porta della nicchia, in
forma di portella (Cappella del Tesoro).
N.B. Il quadro era nel Salone dell’Udienza, incastrato nel muro.
- Acquasantiera per la Chiesa della SS. Annunziata di Aversa.
2 settembre 1710. Misura ed apprezzo dell’opera « … di pietra di
Caserta, e marmo bianco nel fregio e tre tabelle del cornicione per
compirne il primo ordine di architettura della facciata … fatto a spese
per il magistero tantum et in parte anche per il materiale da G. Sacco
marmoraro» (Chiesa dell’ Ascensione a Chiaia, Napoli).
9 maggio 1712. Si obbliga di costruire in marmo l’altare maggiore
della Chiesa del Corpo di Cava, con istrumento per Not. Giuseppe
Madaluna, di Napoli, che, con i lavori degli scalini e della icona di
stucco nel muro, per riporvi l’antica statua della B. V. Assunta, si
paga duc. 510,75 (Chiesa di S. Maria Maggiore).
22 agosto 1713. Hanno concluso che si facci polisa de due. 5
a Gaetano Sacco in recognitione di sue fatiche straordinarie fatte
nella nostra Cappella (del Tesoro), come anche per haver impiombato
sopra la Piramide di marmo del detto Glorioso Santo (S. Gennaro)
alcuni pezzi di marmo che erano cascati.
4 gennaio 1719. Al Signor Marchese dell’ Auletta due, 50 e per
esso a Gaetano Sacco marmoraro, disse essemo a conto dell’ opera
di marmo, su deposito che doveva fare qui in Napoli, tutto di marmo
bianco di Carrara, in conformità del disegno in grande fatto nella sua
bottega, stabilito fra di loro alla raggione di carlini dieci il palmo
. sottosopra, così delli scomiciati, come piani, et a rispetto degli intagli
e figura di mezzo, siccome dalla misura di esso da starsi a quello sarà
stabilito dal mag.co Ing.ro Ottaviano Nauclerio, così per lo prezzo
come per la perfetione delle modanature delli sud.ti scomiciati, et
altro includendo che detta opera dovrà darla tutta lustra ad uso di
buon maestro, per lo spatio del 2 gennaio corrente 1719 e sino al 20
di maggio prossimo venturo, dichiarandosi con d.to prezzo che d.to
maestro l’abbia da ponere in opera in Caggiano, con darli a sue
proprie spose le casse di legname, e portatura, dare la comodità di
calesse a d.to maestro, et a un discepolo, condarli le spese così per
lo viaggio che per la mora della ponitura in opera senza ricognitione
alcuna, eccetto darli il fabbricatore colli materiali di calce et pietre, a
sue proprie spese una colle grappe di ferro, con dichiaratione che d.ta
opera doverà farla in tutta perfettione, e bontà secondo gli starà
ordinato da d.to Mag. Ing.ro, e la figura di mezzo doverà essere di
marmo statuario de migliore che vi sia, a lui contanti con sua firma
(Chiesa Parrocchiale di Caggiano).
27 agosto 1720. Essendo questa mattina accesa la candela in
presenza di detti Ecc.mi Signori Deputati per li lavori della pietra di
porfido si ha da lavorare per servitio del gradino del Capo Altare
maggiore della Cappella (Tesoro), è rimasta detta opera a G. Sacco
ad finem providendi, cioè il piano a due. 5 il palmo, il centinato a due.
9 il palmo e lo scomiciato a due. 30 il palmo.
Nell’appalto si intromise il marm.ro Vito Cangemi, che offrì di
fare il lavoro al 10% in meno rispetto al Sacco, ma l’opera restò al
Sacco, che stipulò istrumento il 14 ottobre 1720, e subito si mise
all’opera.
4 febbraio 1721. Hanno concluso che si facci polisa per detto
conto a G. Sacco de due. 50, a conto delli lavori fatti e facienti per
il detto gradino.
19 dicembre 1721. Al Signor Marchese d’Auletta d. 20 e per
esso a Matteo Bottigliero scoltore disse pagarli di suo proprio denaro
et in non e parte di mastro G. Sacco a conto del prezzo della statua
di marmo che detto Matteo deve dare per lo Deposito della quondam
Donna Emma Vele Erbena Visilio sua figlia, quale statua doverà
essere di tutta perfettione e bontà e di marmo statuario di Carrara,
secondo l’obbligo che ne tiene con esso detto marm.ro maestro
Gaetano, in virtù delli patti con esso furono stabiliti nella partita del
medesimo mastro Banco del primo prossimo passato fattoli a 3 gennaio
1719 quali due. 20 detto Gaetano doverà bonificarceli nelli conti
che passano tra loro per causa di detto Deposito, atteso il presente
pagamento di esso si fa in nome suo e di sua propria volontà (Chiesa
Parrocchiale di Caggiano).
7 gennaio 1722. Hanno concluso come, dovendosi ponere, con
l’aggiunto del Signore, e la gloria del nostro Protettore, il giardino del
Capo Altare della Cappella (del Tesoro) per la festività di maggio
prossimo venturo di questo corrente anno 1722 et acciocchè non
solamente si vegga il detto Capo Altare, ma tutta la Cappella posta
in buona semetria, si è concluso che le credenzole son le tavolette
d’argento stanno sopra li putti si tolgano, et invece si facciano tavole
di PORFIDO con comici di argento attorno con servirsi, se non sarà
possibile, delle comici che stanno in esse, e che Gaetano Sacco tagli
dette tavolette di porfido e pulischi tutti gli marmi di d. ta Cappella, che
si puliscano gli argenti et il magnifico Carlo e Nicola di Turris se ne
prendono il peso, come se l’hanno preso.
– L’opera dell’ altare maggiore procurò al Sacco uno strascico
giudiziario. Vantando una spesa superiore rispetto ai patti stabiliti, G.
Sacco, che da molti anni era al servizio della Cappella del Tesoro
come pulitore di marmi, aveva affidata al R. Ing. Cristofaro Schor la
perizia dell’intero altare di porfido. Già nel nov. 1722, l’ing. aveva
rivolto un memoriale alla Deputazione «dicendomi quello non essere
stato soddisfatto dal Sacco per le sue fatiche fatte in misurare tutto
l’altare di porfido». In più ricorse alla Gran Corte Vicaria per far
valere i suoi diritti.
26 settembre 1724. Discorsosi su dell’affare della misura fece
del Capo Altare della nostra Cappella (Tesoro) circa lo porfido lavorato da Gaetano Sacco, fatta dal magnifico Cristoforo Schor, quale
pretende la somma di due. 75, per lo quale affare detto Cristofaro s’è’
indirizzato nella Gran Corte della Vicaria contro detto Gaetano, si è
ordinato al magnifico Dr. Tiberio Petrarchini, procuratore della nostra
Cappella, che presenti una comparsa con inibire detta Gran Corte
della Vicaria e si compari avanti la Delegazione della nostra Cappella.
– La causa andò avanti nella G. C. della V. Il relativo incartamento
contiene una relazione del R. Ing. Giuseppe Stendardo (14 dicembre 1722).
L’opera di porfido importò una spesa di duc. 2603 e grana 60. Il
15 dicembre 1727 si ebbe il verbale di sequestro dei beni del Sacco,
debitore di due. 75 a favore del R. Ing. C. Schor. Nell’elenco dei beni
sequestrati anche quadri di soggetto religioso senza il nome dei rispettivi
autori.
Gaetano Sacco morì nel 1730, dopo aver lavorato per quasi mezzo
secolo nella Cappella del Tesoro. Nel suo servizio di “pulitore di
marmi” subentrò il nipote Gennaro Marra il 28 marzo 1730, con
l’obbligo di «far scopare due volte la settimana la Cappella, sagrestia
e due nuovi guardarobbe, mantener con tutta pulizia li pavimenti con
nettarli della cera, pulire li marmi della Cappella nelle cimase, piedistalli,
basamenti, grade e palaustri, spolverizzare le statue di bronzodei
Santi Patroni ogni settimana e due volte l’anno tutto il tesoro, cioè
nella festività di maggio e settembre con l’affacciata di fuori, ed
anche dare ogni anno una pulita alli piedistalli della Piramide di marmo». Alla sua morte gli successe il nipote Michele Salemme (1752) ed alla morte di questi (1790) il figlio Agostino.
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