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Quel che resta del padre

Cosa fare per essere bravi genitori, indipendentemente dalla forma familiare

Quando si parla di famiglia, oggi, si è portati a mettere in evidenza in special modo il suo declino. Si sente parlare sempre, soprattutto da accademici di fama, di “famiglia patologica”, per evidenziare le pieghe disfunzionali che   la contraddistinguono. Non esiste un unico tipo di famiglia, ne esistono centinaia, almeno a seconda del contesto geografico, culturale, sociale. In Cina i bambini crescono con i nonni. Nei paesi arabi gli uomini hanno più mogli e un numero infinito e indefinito di figli.

La famiglia ideale non esiste. E non è nemmeno così importante che lo sia.

Piuttosto è fondamentale chiedersi cosa fare per essere bravi genitori, indipendentemente dalla forma familiare.

La famiglia è e resta un’organizzazione sociale necessaria.

Può mutare nel tempo, nella storia micro come nella storia macro di una intera società. Il nodo focale sta nel percepire questi cambiamenti all’interno delle relazioni familiari, cogliere i momenti di crisi, adattandovisi di volta in volta, evolvendosi. E se invece qualcuno non riuscisse ad adattarsi ai cambiamenti, a superare le crisi? È notorio che oggi la famiglia risenta di un grave deficit costitutivo.

La vecchia famiglia patriarcale, strutturata in maniera che il pater familias avesse diritto di vita e di morte sui figli e sulla moglie, struttura disgregatasi con l’avvento della rivoluzione industriale, ha lasciato lo scettro, oggi, al padre impiegato, con funzioni meramente amministrative, ma sempre più assente e lontano nell’educazione e nella crescita dei figli.

Gli attuali giovani genitori, pur di non identificarsi in quella figura paterna, anaffettiva ed autoritaria della propria infanzia, hanno decretato la morte del padre, nel senso di ruolo paterno classicamente inteso. Pur di non ricalcare le orme paterne, caratterizzate da rigidità ed autoritarismo, si sono inventati un ruolo più morbido, se vogliamo, tanto da diventare talvolta una sorta di “mammi”, ricalcando atteggiamenti di contenimento e di profusione affettiva che invece sappiamo attenere prevalentemente alle madri, e quindi, in tali casi, potremmo dire che questi genitori abdicano essenzialmente al loro ruolo di padri.

Che ne è stato dunque del padre? Disperso.

Mentre la famiglia riemergeva (o almeno tentava di farlo) come risposta al qualunquismo derivato da un appiattimento culturale conseguente al conformismo ed al consumismo e, quindi, si proponeva come ambiente protettivo e sicuro in cui soddisfare i propri bisogni affettivi, economici e sociali e in essa spiccava il ruolo riqualificato della madre, il padre non rispondeva all’appello, ma si dava alla fuga dalle responsabilità, alla latitanza educativa e formativa. In pratica , non sentendosi a proprio agio nei panni del pater familias, detentore del ruolo etico normativo a cui spettava trasmettere norme e costumi sociali (quello per intenderci tutto d’un pezzo), tentato da modalità meno rigide, più affettive se vogliamo, (ma a volte nemmeno questo) come quelle materne, ha incarnato una sorta di ibrido, di padre sperimentale, che però non ha sortito gli effetti che sperava, ma che ha generato, a mio avviso, una serie di problematiche a catena come quelle derivanti dall’assenza di norme e regole ( il padre incarna la Legge), pilastri fondamentali dell’educazione, che gran parte delle famiglie post moderne lamenta. Persino il triste fenomeno della cosiddetta “Adultescenza” o famiglia lunga, che dir si voglia, è senza dubbio imputabile alla crisi del padre contemporaneo.

Come dire che senza norme, regole, freni, diventa difficile assumersi le responsabilità e alla fine non si cresce, non si matura.

Quando un padre c’è, ma è come non ci fosse, fallisce uno dei suoi compiti fondamentali, ovvero creare la propria figura simbolica ed educativa.

La funzione principale del padre è, infatti, di trasmettere al figlio con l’esempio, la sua ‘visione del mondo’, la distinzione tra bene e male, tra buono e cattivo.

Attraverso questo processo di interiorizzazione di sistemi, il figlio ha un supporto valido per giudicare se stesso e la realtà che lo circonda. Un’altra figura critica è il padre amico/fanciullo che si pone come compagno di giochi e quindi evita di ricoprire il suo ruolo educativo. Con questi esempi non voglio affermare che il padre autoritario vecchio stampo fosse un esempio ideale perché, magari, delegando alla madre il compito educativo, falliva anch’egli non comprendendo che il lavoro educativo è un ruolo di squadra.

Un’altra forma di abdicazione al ruolo genitoriale, questa volta totale e assoluta, è invece, sparire. Sparire, dileguarsi, in una parola, abbandonare il tetto familiare.

Può sembrare qualcosa di estremo, estemporaneo, oppure, magari, raro.  Appare in prima istanza, a coloro che non sono avvezzi alla materia, ovvero, alla casistica, come una sorta di accadimento dettato da un impulso irrefrenabile, da un momento di smarrimento, un’alzata di testa. Non è così.

Il fenomeno è, invece, spesso ponderato, premeditato, sta diventando sempre più frequente e, potremmo dire, prevede una duplice forma: sparire fisicamente e/o sparire economicamente. Praticamente non contribuire al mantenimento dei figli e non contribuire alla loro educazione e crescita, in quanto fisicamente assenti.  Inutile dire che questi comportamenti sono vietati dalla legge, e che ciononostante, molti genitori li assumono senza nulla patire.  In Italia la casistica dei genitori che abbandonano i propri figli attiene specificamente ai padri.

E malauguratamente i vari articoli del codice civile che riguardano i doveri dei genitori nei confronti dei figli, mi riferisco nello specifico all’art. 147 che prevede l’obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole, non hanno nessuna efficacia su un genitore che fugge, in quanto, è chiaro che, se lontano fisicamente, non può assolvere a tutte queste funzioni.

Certo, un genitore che ha un tenore di vita elevato si disinteressa dei figli e continua impunito la sua esistenza, non può ritenersi eticamente tale.

E fin qui abbiamo parlato di doveri economici.

Ma il risvolto più drammatico in situazioni del genere riguarda senza dubbio altri doveri che attengono ad un genitore, quelli di natura non economica.

Le ricadute sullo sviluppo e sulla crescita dei figli di un comportamento del genere possono comportare risvolti drammatici. La brutta notizia è che, in questi casi non si può ricorrere a nessuna tutela legale. Se un padre decide di lasciare la propria famiglia e di disinteressarsi completamente dei figli, non si può costringerlo a farlo. Certo si potrebbe sporgere denuncia…

Questo è un aspetto drammatico della questione perché apre il sipario su una tendenza ormai consolidata a svuotare di significato e di valore la Famiglia come Istituzione, visto che ormai anche a livello giuridico non esiste tutela.

Ma non è questo il contesto giusto per farlo.

È giusto domandarsi perché accadono simili disastri.

Perché un padre va via di casa? È un problema serio, una questione grave quella dei padri che abbandonano la famiglia, i figli, la moglie, la casa, il cane. Perché diciamoci la verità, anche se resta un qualche fondo di contatto sporadico, o magari quotidiano, ma soltanto telefonico coi figli, si tratta pur sempre di un abbandono bello e buono.  Inutile indorare la pillola. Si tratta pur sempre di un genitore che fugge, e da cosa?  Fugge dalle responsabilità, dai doveri, dagli impegni, dai sacrifici.

Sacrifici …e chi più ormai è disposto a farne, se siamo tutti protesi verso il raggiungimento della felicità, del bene stare, della leggerezza, per cui la parola sacrificio evoca una forma di sofferenza che preferiamo evitarci? Quindi, si fugge da impegni familiari che in qualche modo appesantiscono il fluire del nostro quotidiano, ci stressano, per dirla con un linguaggio moderno, ci affaticano, come sicuramente ci affatica educare. È difficile educare, lo è sempre stato, ma lo è ancor di più oggi per l’uomo immerso nella post modernità alle prese con le difficoltà della sua spasmodica ricerca di identità, di una pur qualche definizione (anche se ormai ha 50 anni suonati!) e deve pure vestire i panni del genitore autorevole, serio, responsabile e maturo. Mi riferisco a quei padri immaturi alle prese con un lavoro insoddisfacente e frustrante, con l’età che avanza (maledetta andropausa!) e non lascia scampo, attivissimi sui social e che non riescono ad assolvere ad un ruolo che probabilmente non sentono e/o per cui non possiedono strumenti, caratteristiche.

Le motivazioni possono essere altre. Secondo alcuni studiosi le ragioni sarebbero da ricercare nel profondo. Questioni risalenti magari all’infanzia e alle dinamiche vissute nella famiglia originaria. Schemi familiari che si ripetono di generazione in generazione, problematiche irrisolte che vengono fuori nel momento in cui la nascita di un figlio pone davanti a responsabilità enormi che non si riesce ad assumere, difficoltà a creare un legame vero, profondo coi figli perché magari non ha vissuto adeguate esperienze   per farlo. O perché egli stesso ha un vissuto di abbandono, di sofferenza, di travagli.

Ma perché far rivivere ai propri figli gli stessi dolori? E perché sfasciare una famiglia, creare sofferenze, distacchi, traumi, quando si conosce bene quel dolore lacerante, proprio perché lo si è vissuto in prima persona? I motivi potrebbero essere tanti, o nessuno. Certo è che scandagliare i meandri più nascosti della psiche richiede coraggio, la capacità di arrogarsi il rischio di scoprire segreti pericolosi, meccanismi perversi. E poi la colpa di chi è? Potremmo annoverare tra gli imputati in primis la società moderna, i ritmi a cui ci costringe, le richieste che ci impone creando sempre più individui che persone; allontanando sempre più i membri di una famiglia anziché unirli, generando monadi e non tribù.

Questo stato di cose produce distacco e non attaccamento e i rapporti risultano scanditi da ritmi freddi, anaffettivi, incostanti. In contesti simili i legami non si costruiscono, si congelano. I bambini crescono senza ricevere gli imput contenitivi necessari ad un sano sviluppo cognitivo e psichico, senza il necessario calore a contatto con le figure principali di riferimento. Cresciuti senza contatto fisico, coccole, tempo e cura questi piccoli subiscono una sorta di smacco, lacerazioni di cui soffrono per tutta la vita e che tenteranno di colmare attraverso comportamenti devianti, dipendenze. Questo tipo di attaccamento riguarda in special modo il sesso maschile.

Gli uomini infatti hanno bisogno di instaurare un legame sano con la madre in tenera età altrimenti cercheranno sempre la figura materna in altre donne senza mai, naturalmente, trovarla. Quando ciò non accade, sarà difficile per costui instaurare da adulto relazioni positive e sane e, soprattutto non riuscirà ad instaurare un solido legame di affetto con i figli. Sarà costui che, molto probabilmente, sarà portato ad abbandonare la famiglia. Senza colpo ferire. Eppure i danni a carico dei figli abbandonati sono ingenti. Crescere senza un padre espone a gravi rischi.  Il solo fatto di essere meno controllati, in quanto sotto la responsabilità di un solo genitore (che in genere si fa carico di tutto l’andamento familiare, domestico ed educativo) li espone al rischio di commettere maggiori atti immorali.  Pensiamo poi alla probabilità per le ragazze di rimanere incinte: sono due volte maggiori, se cresciute senza il padre, secondo il Dipartimento della Sanità e dei Servizi Sociali.

Molti genitori rimasti senza coniuge, sopraffatti dalle responsabilità e dagli impegni (molti sono costretti a fare due lavori per sbarcare il lunario!) non riescono a dedicare sufficiente tempo ai figli.

Nonostante numerosi studi affermino che i ragazzi riescano a riprendersi, anche se faticosamente, dopo la separazione o l’abbandono di un genitore, io non ritengo, per esperienza professionale, che ciò sia rispondente alla realtà.

L’elaborazione psicologica e a livello emotivo non dipende solo dai figli, ma anche dal contesto. L’assenza del genitore rappresenta sempre una lacerazione per i componenti della famiglia restante. Ed è per questo che la separazione ha una enorme influenza nella determinazione della nostra evoluzione emotiva e psicologica.

La dott.ssa Judith Wallerstein, per fare un nome, ha riscontrato che il divorzio provoca addirittura danni permanenti.

Sappiamo bene come l’infanzia e l’adolescenza siano momenti evolutivi molto complessi, in cui la personalità non è ancora strutturata per cui, sentimenti quali ansia e tristezza per una perdita condizionano negativamente il modo di relazionarsi e di essere. In pratica i figli di genitori separati crescono senza ambizioni, dopo dieci anni dalla separazione dei genitori. Si sentono impotenti, soffrono di depressione, scarsa autostima, rabbia persistente.

Judith Wallerstein & Sandra Blakeslee in “ the single parent family”  rilevano come i ragazzi che crescono senza una forte presenza maschile manifestino insicurezza circa la loro virilità, e difficoltà a stringere rapporti affettivi. Stesso problema nelle ragazze che trovano difficoltà a stringere rapporti stretti con l’altro sesso. Ma chi può dire quali siano realmente le sofferenze che provano nel quotidiano, o magari i sensi di colpa che attanagliano questi figli il cui padre si disinteressa letteralmente della loro esistenza?

C’è poi un altro aspetto poco considerato ma che mi sento di trattare quantomeno per restituire dignità all’altra parte, quella che resta, quella che si accolla tutte le responsabilità sia del ruolo paterno sia di quello materno, che si prende cura di questi figli lasciati e forse dimenticati, e   forsennatamente, amorevolmente, sopperisce a quelle mancanze, alle assenze e talvolta all’indifferenza del padre fuggitivo.

Mi riferisco a quelle madri abbandonate e lasciate,  che hanno pure  sofferto (e chissà quanto)  e nessuno mai ne parla.  Madri rimaste sole a crescere questi figli tra mille difficoltà; a fare da padre e da madre, a sostenere, allevare, proteggere e contenere, in una parola ad educare. L’aspetto drammatico del genitore che rimane solo coi figli, e nella stragrande maggioranza si tratta delle madri, riguarda la difficoltà ad andare avanti, il dolore, le domande a cui non si trova risposta, i sensi di colpa, la sensazione di profonda ingiustizia.

Eppure, le famiglie rimaste con un solo genitore devono ritrovare nell’amore la strada per andare avanti. Devono recuperare con la forza dell’unione la motivazione a continuare nonostante l’assenza. Devono ripristinare un senso nel non-sense dell’abbandono.  Chi resta solo e forse alla ricerca di un significato per la sua esistenza spezzata (e chissà se mai lo troverà) è, a mio avviso, proprio quello che sparisce.

Sonia Sellitto, Pedagogista, Formatore, Esperta in disagio adolescenziale

Maria Rosaria Voccia

Giornalista, editore e direttore responsabile di www.sevensalerno.it e di www.7network.it. Storico dell'Arte, sono cittadina del mondo, amo la vita, l'arte, il mare, i gatti... Esperta in giornalismo eco ambientale, tecnico di ingegneria naturalistica, autrice del Format Campania in Fiamme: Criticità & Proposte, mi impegno nelle e per le campagne eco ambientaliste perché desidero un mondo migliore, per noi e per i nostri figli. Sono progettista culturale, ideatrice di Format, organizzatrice e curatrice di eventi.

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